Bohemian Rhapsody è una composizione. Il film non racconta minuziosamente una storia, non si limita al racconto lineare degli eventi, diciamo che non è stato pensato da un “fanatico”. È invece una poesia sovrascritta a una storia. Ammetto di non essere una particolare stimatrice dei Queen, ma questo film non può essere giudicato soltanto da chi già conosceva Freddie o si aspettava una sorta di agiografia. Sono cresciuta sentendo le loro canzoni come tanti altri -ormai adulti- della mia generazione (quelli in bilico tra i millenials e la X) e – proprio per questo – mi ha accompagnato una certa curiosità nei confronti del come di questo film diretto da Brian Singer. Quando si è troppo piccoli, in effetti, ci si concentra molto di più sul chi e il perché rispetto al come e da dove. Quando tornai a sentire – questa volta da adulta- e per la prima volta, la canzone che da nome a questo film, ovvero Bohemian Rhapsody, mi chiesi: come è successo? Da dove proviene quell’energia? E quella voce irripetibile?
Sì, è vero, come la maggior parte di voi sono andata al cinema a vedere un film su di lui, su Freddie Mercury. Ma ben presto mi sono accorta del mio errore: non c’è solo lui, è un film sui Queen. Un lungometraggio che spiega la vera potenza del gruppo e la fragilità nascosta dietro al genio, in un momento storico dove, per la prima volta, (quasi) tutto è concesso. Vediamo sullo schermo come l’essere immortale (o meglio: il suo divenire tale) sia un’esperienza totale, senza mezzi termini, non è permesso il dubbio. Il sacrificio è inevitabile. E tuttavia è emozionante e, in fin dei conti, molto umano vedere come l’amore – nelle sue diverse manifestazioni- sia capace di sublimare in qualche modo questo finale già scritto.
A tutti coloro che criticano le imperfezioni cronologiche della trama, mi sentirei di dire che non hanno capito molto. Non è una gara di fedeltà “filologica” della rappresentazione. Sarebbe come far competere un fotografo dei nostri tempi con un pittore: può essere superiore una foto a un ritratto di Caravaggio? Abbiamo altri mezzi per vedere e ricordare il reale: nei film ci deve essere spazio per qualcos’altro.
Sull’interpretazione di Rami Malek poco posso dire che non sia già stato detto: è da Oscar, se ancora questa frase ha un suo significato. Non solo perché ha prestato la sua voce senza temere il confronto con uno dei migliori cantanti del secolo scorso (se non addirittura il migliore); ma anche perché si è integrato alla perfezione all’interno del progetto senza cadere nella banalità di una semplice imitazione parodistica (una delle più grandi paure che ha dovuto sconfiggere questo film). Sono contenta per lui, non era giusto ricordarlo sempre e solo come il ragazzo di Mr Robot e spero che ci darà modo di chiamarlo con un soprannome molte altre volte.
E arriviamo al momento finale: Il Live Aid. Uno spettacolo in tutti i sensi. Non vi dirò molto per non rovinarvi l’esperienza. Dirò solo che è qui dove tutto acquista un senso compiuto. Qui, infatti, la composizione del film diventa finalmente danza e si completa come esperienza estetica totale grazie alla participazione del pubblico.
Andate a vederlo perché ne vale veramente la pena.